Fotografia di Gianmario Lucini (2011)
Se vai lungo la costa dello Jonio
da Reggio a Squillace, osservali
gli scheletri di muri che la ‘ndràngheta
ha disseminato lungo il litorale
e rifletti se questo è il Paese
magnifico che abbiamo ereditato
dagli antichi Greci e dai Normanni.
Considera poi che la bellezza
è soltanto una piccola preda
nel carniere dei loro misfatti:
rifletti sulla tua stessa vita
aggrovigliata nel disordine e nel grigio
dell’incertezza che ti consegna inerme
a giochi segreti e perversi
di massoni deviati;
non crederti indenne perché abiti a Milano
o al Nord o in Inghilterra,
in ogni Paese ormai la guerra
unilaterale è da tempo dichiarata:
la ‘ndràngheta avanza, il mondo
le cade tra le braccia
– illuso di sconfiggerla
con l’efficienza della polizia
o il candore dei fragili versi
d’una poesia –
(Gianmario Lucini)
I risultati della Sezione A
Vincitore
Alessandro Franci
da La lingua convenuta
La polvere dei cementi
è l’esito della storia
quel che resta,
la somma di intonaci guasti
delle periferie di mezze case,
di androni senza luce e fragranza,
anditi ciechi
in una fretta che incombe
sui passi e sulle culle
sui sipari che calavano ogni sera
(sera grande di rane e grilli
urti di cancelli chiusi
spolpata fino all’osso,
prima del cielo e delle stelle)
Seconda classificata
Mara Venuto
Su via Mazzini, malfermi due negozi
si reggono l’un l’altro,
fianco a fianco non parlano la stessa lingua.
Una venere nigeriana in cassa
accusa il suo uomo, non paga abbastanza
per il figlio e il bambino lo ammazzerà.
Nel buco accanto, un vecchio spezzato
accoglie i clienti nella sua lingua,
un dialetto portuale per prodotti fuori moda.
La moglie aveva buon gusto,
ma non sa più a sorridere a comando
e preferisce le televendite.
In quella strada grida una stanchezza moderna,
un alone incompreso di scarto.
Terzo classificato
Adriano Cataldo
da Rifiuto residuo
Conosce vari modi di sparire.
All’ombra di un bidone, impunemente
il tetrapak di latte sembra fugga
il troppo sole, che tetramente lo deperirà.
Ai bordi della strada, prostrato sulla schiena
nella fuga, al cane si sommano i solchi di gomma.
Il prodotto, come scopo, promuove l’immagine.
Segnalati
Enea Roversi
da sensibile alle minuscole
il negozio di scope
c’era a edimburgo un negozio di scope
poi dietro la curva la musica dal vivo
nel pub oscuro con la joyciana insegna
e densità elevata di corpi in movimento
la birra scura catalizzava umore e sensi
gli artisti di strada un folle circo colorato
pur non essendo giovani (ma certo più di ora)
nel cuore portavamo un sole intenso
la pioggia del nord mica ce lo spegneva
sai, se quel negozio fosse aperto ora
ci comprerei senza esitazione alcuna
la scopa perfetta per volare in cielo
o per spazzare via almeno una paura
tra tutte quella di invecchiare male
Alfonso Maria Petrosino
da Oblivia
Luna park
Mi sono perso nelle tue sinapsi,
specchi anamorfici di un luna park,
e uscite non ce n’è di sicurezza.
Un tempo c’era un modo per tornare
a casa. Calcolo con Google Maps
quant’è lungo il tragitto per l’imbarco
sull’Acheronte: un’esistenza e mezza.
Se proprio devo ahimé dimenticare
il tuo indirizzo, inizierò dal CAP
e seguiranno il civico e la via.
La chat con tutti i tuoi messaggi: reset.
Confonderò le coordinate: nord
la latitudine, est la longitudine,
dodici cifre e il segno della croce.
Le nostre frasi resteranno appese
ad una corda, ecco così: ti scordo
come un weekend di sogno il lunedì.
Ma Spotify mi dice sottovoce
que tengo miedo a perderte despuès,
perdere chi non è mai stata mia.
Gisella Genna
da Rarefazione
L’affondo del reale, il nostro freddo –
la parola si fa marginale,
sfioramento senza peso dei corpi.
Resa del tronco spezzato nell’aria
di gennaio – se solo
riuscissimo a credere.
Monica Guerra
da Kabul – fotogrammi
un doppio obiettivo centrato
4.000 soldati ancora da evacuare
ma Joe Biden non darà tregua
la giustizia è nelle mani un drone
nient’altro da dichiarare
Silvia Monti
da Betulle (e altri alberi)
Ti chiedo solo questo, punto e basta,
dio che a volte scompare e a volte sovrasta:
fammi uscire
dalla mia testa
e libera anche il corpo
e tutta quanta la felicità,
tutta, e tutta quanta.
Non ho paura, abbonda.
Raccogli la mia sfida,
scegli la mia preghiera
sono assolutamente vera
quanto l’amore
che ti chiedo e che mi spetta.
Tutto, e tutto quanto.
Tanto, tanto.
Patrizia Sardisco
da Scorci (Bucce)
II
Munnari, ma chiossai arrimunnari
scippari e sàrbarisi ‘abbruciuri ri manu
nfìlitu nta na parola cchiù chi nura
a peddi arrascata.
E ‘un fari focu i ramagghia e erba tinta:
vrùricalli, e ‘ardìcula accustaricci u sonnu
nchiuvari ‘aricchia o tirrenu, vivirisicci u ciatu.
Cugghiricci i virdi a varcoca sarbaggia
sarballu nna lingua:
è virità sulu siddu è zurbusa
quanno è nzitàta è scantu c’abbacamu
‘annurbata r’a vestia nno sbalancu
Sbucciare, ma di più potare/sradicare e serbare il bruciore delle mani/infilato in una parola più che nuda/la pelle abrasa./Non dar fuoco a sfalci ed erbacce:/sotterrali, e frequentare le ortiche con la tempia/inchiodare l’orecchio al suolo, berne il fiato./Cogliere l’aspro nell’albicocca selvatica/serbarlo nella lingua:/è verità solo se allappa/quando è addomesticata è paura che plachiamo/la bestia resa cieca lungo il precipizio.
Adriana Tasin
da Sopra vivenze
quando raggiungi la sommità ti prende quello stordimento
che a guardarli quei sassi che rimbalzano spinti giù dall’ultimo passo
a vederli quei paesi in lontananza che paiono pugni di luce nell’erba
a immaginarli quegli uomini nei rifugi che osservano il cielo dalle grate
ti impressioni per quanto tutto è piccolo e non manda rumore
è come se tutto di colpo apparisse illuminato nell’ascolto muto
Alfredo Panetta
da NDRANGHETA.
A JURTA
-Ammata allucchi jà!
Mpungatu ‘nzin’e dinocchjia
‘nto pontanu, t’arrotuli a ‘na furca
e, screpituni
spacchi l’aria a menzini:
‘nzoccu tocchi ajumi!
-Eu non mi spagnu,frati,ma m’arrassu
scugnu mentrasti
tra a me carni e tìa
eu tegnu sulu vrazza d’ammojari
‘nta ll’acqua ‘ncatricata d’a hjumara.
LA LOTTA
-Ancora, ancora insisti!
Sprofondato fino alle ginocchia
nel pantano, ti contorci a una falce
e, all’impazzata, fendi l’aria
in due parti: ciò che tocchi infiammi!
-Io non ho paura, fratello
ma mi scanso, tolgo sterpaglie
tra la mia carne e te
ho solo queste braccia da bagnare
nell’acqua piena di trappole della fiumara.
Barbara Vuano
da Trecentosessantacinque luci si spensero all’alba
Mentre tu precipiti
sale dalla terra ovunque
come se non ci fosse
altro giorno
un nulla dappertutto
dai pruni dai noccioli dai fossi
con la stessa determinazione
del bollitore
rompe l’involucro
impossibile tacere
le ore ceche della prigionia
le orribili ore ceche
viene su dalla notte come il caffè
l’odore di letti sfatti, di muri
vuole ricominciare
dalle rive erbose
il balsamo, sprout germoglio
viene su dalla notte, con urgenza
il balano dell’ultimo miglio
lacera la notte
viene su, viene su, cresce
la punta acuminata
senza un saluto, come diventato un cuore
viene.
*
I risultati della Sezione B
Vincitrice
Lucia Brandoli
Per Aziz, un ragazzo di Herat.
Si traccia una netta cesura:
una persona è stata persa –
irrintracciabile. Ora non è qui.
Ci chiediamo se sia nell’altro luogo.
Là dov’è nata, dove dovrebbe ma non può
restare.
Piange un bambino oltre la finestra.
Sotto la magnolia. Appeso
ai fili della biancheria.
Le signore, sotto, avranno già mangiato.
Eppure ascoltano.
Ascoltano le mie paure.
A volte anche i desideri.
Ascoltano le mie canzoni,
le bestemmie.
Non pensano le stelle:
sono solo luce.
Secondo classificato
Antonio Francesco Perozzi
Fossalta
Vivere banalmente
è uno schioppo dalla Crai al bar,
una collezione di adesivi che alla fine
vinci un drago.
Fossalta, poca cosa
con un nome che non spiega
se va in basso oppure sopra, se
sul retro dell’Osteria Rialto è davvero la trincea
che si scavalca, o solo un dosso.
«HANNO SPARATO A HEMINGWAY»
lo scrivono dappertutto perché non è successo
nient’altro da ricordare: chiesa novecentesca,
modesta, una leggenda
sugli aironi. Così quando ritorno
la racconto in quattro frasi: «Come si vive?»
«Mese per mese, a contratto
determinato, passeggiando dieci minuti
sulla via principale.»
Al Roxy c’è il sole perché ha vetrate
larghe che trattengono il caldo. Torno indietro
e non trovo un minuto nel cervello
che mi abbia avvisato, magari nel sonno,
scendendo l’estate da un autobus,
rubando Lupo Alberto o vestendomi,
che alla fine sarei arrivato fin dentro
qua. In pochissima cosa.
Terzo classificato
Stefano Bottero
verrai meno
prima di avermi insegnato a camminare
tra i canali – arrugginire prima
del tempo prescritto
dai termosifoni.
in gola già si aprono lesioni
e scrivi sulla milza l’intraducibile.
ti amo tieni strette le frequenze, Nicodemo.
la malattia va meritata
nel respiro.
Segnalati
Antonino Bondì
(m.)
e ora che cambi, che sbaglio,
che spazzi con la voce
le pause del sangue e le bruciature mute,
è ora, proprio ora, che vita diventa
parola d’improvviso,
parola fatta male, parola sbilanciata
fra ormone fuga, matita e scudo.
e ora che spengo, che leggi
che lavo con le gambe
i gorgoglii delle auto, le occhiaie delle strade
è ora, proprio ora, che volta dopo volta,
dice l’ultimo fantasma,
il pozzo diventa diventa suono, colore scalcagnato
fra incastro e pedale, solo olio che sfila.
Ksenja Laginja
Adesso che non eravamo più lì
fu evidente l’inganno del viaggio
che l’altezza si potesse misurare
attraverso l’apertura della bocca.
Capimmo così il senso della fame
come il lupo era entrato in noi
aveva indossato nomi e abitudini
si era seduto alla nostra tavola
e il perché ci davano la caccia.
Jacopo Curi
Hubble vede nel tempo, ma il tempo non esiste
nel movimento autosufficiente dell’universo,
fuori da questa grammatica che comprime
il pensiero in un linguaggio. Così la vita si fa
parola, possibilità di nomi, didascalia del mondo
quando basterebbe l’incoscienza stupita
di queste colline. Al bivio tra parola e vita
si rinuncia al vero per la menzogna, per partecipare
all’inutile bellezza del dire.
Marco Carretta
I
Tu risorto
tu molto in alto, nei racconti
e poi nel tempo che scende tra le dita.
Come un nastro,
atteso seduti sul legno bagnato
senza scarpe
aspettando di passare
in una stanza fredda
verso ovest.
Tu che vedi queste piaghe
e il pane che cerchiamo.
Tu lontano tra le maree
nelle nostre speranze
di una doccia calda e
poter riposare senza esser pronti.
Vedere i figli crescere
usare acqua
avere dei vicini
poter lavorare e parlare
restare nell’amore del giorno.
Adriano Cataldo
3.
Affiora in un blop lavorio dei flutti, la bottiglia levigata.
Gabbiani circondano piatti tra urla
la goccia di sangue sempre sul becco
l’uso che acceca non tollera vuoti.
Vietato gettare rifiuti, trasgressori puniti.
I prodotti per sempre a sé stessi
solo affiorando tengono a galla l’umanità.
Francesco Indrigo
Sarajevo o dal nostri unviȃr
Ma ‘i stevin zint, cun se ch’i vanzevin da la vita,
animai bracàts ta li’ tanis.
La Fuarsa di Pȃs dispunuda in biel ordin
e i riflès blindàts tai tanarots fraits da la sitàt svuarbada.
Il revòc lontan da la sclopetada, dispiardinsi
tal blu dal gilè, a scjassa la ciamisuta
da la siora Olga, la nostra guida.
Il bloc al scuminsieva dal unviȃr.
A dis che in prin a j erin doma plazis pituradis
e albars colorats, a son vignudis
dopu li’ peraulis sonciadis: Grande Serbia-
minoranza etnica-pulizia dei Balcani-necessità
di intervento armato. L’urani invessi, a si poièva just
tai porus, sensa diferensis di stirpa o di religion.
Cussì coma i bossui dai kalashnikov, a implinivin
a casu li’ sagrestiìs da li’ glesis e da li’ moscheis.
Someares che diu nol fos sigur dal tornȃ.
Crodimi, il troi dal sanc al è tiara sterpa.
Adès pogniti tal fìl dai lavris.
Se ch’i savìn, nol è se ch’i varessin
di conossi. A la fin il spazi blanc, vuet di rabia
tra viars e viars, al speta sempri la peraula amȏr.
Sarajevo o del nostro inverno / / Ma si stava andando, con quel che restava della vita, / animali braccati nelle tane. / La Forza di Pace ordinatamente schierata / e i riflessi blindati sui crateri putridi della città accecata. / / L’eco lontana dello sparo, sperdendosi / nel blu del gilè, fa sobbalzare la camicetta / della signora Olga, la nostra guida. / L’assedio cominciava dall’inverno. / / Dice che prima c’erano solo piazze dipinte / e alberi colorati, vennero / poi le parole spezzate: Grande Serbia- / minoranza etnica-pulizia dei Balcani-necessità / di intervento armato. L’uranio invece si depositava equamente / sugli alveoli, senza distinzioni razziali o di religione. / Così come i bossoli dei kalashnikov, riempivano / indifferentemente le sagrestie delle chiese e delle moschee. / Pare che dio fosse incerto sul ritorno. / / Credimi, la via del sangue è terra sterile. / Ora stenditi sul filo delle labbra. / Ciò che sappiamo, non è ciò che dovremmo / conoscere. Infine lo spazio bianco, vuoto di livore / tra verso e verso, attende sempre la parola amore.
Francesco Umana
1.
Bolle, fumo
e vacuità
Afferro solo inconsistenza
sfuggono bagliori di vuoto
Ballerina che spaventa
pestato la vedo fuggire
Sirene biforcute
e stordimento di loro risate
Dervisci trottole su vertebre
lanciate da corto respiro
Iene danzano nel falò
irridono d’aridità
Smanie di
Cerco nel deserto benvenuti di neon
ma il sale ha già sciolto il ghiaccio
prima del grido
strozzato
Dimitri Milleri
III
Come chiunque sia stato un bambino grasso
scopava le donne per dire io sono bello.
La sua prima missione fu cambiare all’anagrafe
la «ee» classica indiana in «i», per diventare
l’uscito da nessun posto e soprattutto nessun uomo.
Poi simulare lo sguardo di chi
senza saperlo crede ancora negli altri,
nella valle. Non in sé, chiaramente.
Era già grande il boy, per queste cose.
Luigi Cannone
Vorrei voltarmi e correre all’indietro
l’abbagliante trama del mio destino
e ad ogni granello, ad ogni improvviso
bagliore starmene fermo qui accanto,
sopra i giochi dei figli e tra le cose,
esile all’infinito traboccare
di quel che non vediamo ma è reale.
Marina Massenz
Dialogo tra neuroni e sinapsi
In questa zona accidentata
tutta volute creste spirali
tra loro parlano fitto fitto
a voce bassa e suadente.
Altre volte in modo stridente
urlano per chi la sa più lunga
ed è tutto un ronzìo un franare
di parole calpestate ammassate.
Di dialogo ora non si parla certo
non ci sono temi, tempi d’attesa
o pause, ma un cicaleccio nervoso
elettrico con qualche scintilla
che a tratti illumina un sapere
illusorio, una fugace intuizione,
una scoperta che frana nel nulla.
Vuoto, silenzio ora, stanno
abbottonati e nel loro mutismo
si sente come un abbandono
del territorio, del mio corpo
che attende nuove informazioni
sulla perdita, antica otto anni.
Si sa che l’eco è lunga, il corpo sa
che non è finita ancora, rimbalza
si muove è ancorata nelle vene
nel respiro ammaccato e attende.
Silvia Monti
Giuseppina
Mi piaceva chiamarti zia zia Pina
perchè eri la zia di mia zia Pina,
la sorella della nonna che non si era mai sposata,
Giuseppina.
Fino all’ultimo, fino alla vecchiaia
più vecchia, quando ti ho conosciuta, io bambina,
una vita di poche parole
e sempre qualcosa da fare
(eri buona e affidabile come un asino
mi hanno detto una volta, di te.)
I frutteti e le mucche e l’orto,
e lavoravi a giornata
e lavoravi a casa
e dopo sei rimasta col fratello
e le nipoti da accudire, la nuora via di testa
e fino all’ultimo, finché ci sei riuscita
sempre qualcosa da fare.
Gentile, piena di rughe, leggera
e mai al centro della scena,
se ti guardo con gli occhi di allora
(lo sapevi che si può anche riposare?).
Viva, di un’accoglienza disarmante.
Persino dopo più di quarant’anni, ancora,
la riesco a sentire.
*