Edizioni CFR. Tutti i libri realizzati da Gianmario Lucini nel 2011

Gianmario Lucini, poeta, oltre ad aver fondato Poien è stato anche attivo riformatore della scena poetica italiana grazie alla sigla editoriale CFR. Il catalogo dei suoi libri e tutto il magazzino è stato donato a Poiein (ai link le pubblicazioni anno per anno 2014, 2013, 2012, 2011, e il pdf del catalogo completo fino al 2013).
Per informazioni sui volumi aps.poiein @ gmail.com

AA.VV, L’impoetico mafioso, 105 poeti per la legalità e la responsabilità sociale, pp. 152, € 12,00
L’antologia è stata ideata con lo scopo di raccogliere un significativo numero di poeti italiani che esprimano il loro disappunto per la cultura mafiosa, ossia la cultura dei favoritismo, della raccomandazione, del prevalere dei propri interessi personali sui diritti altrui, del nepotismo, dell’illegalità, dell’assenza di responsabilità verso il territorio, l’ambiente, le persone, le generazioni future; e infine la cultura del pizzo, dell’estorsione, della prepotenza, della violenza, della connivenza, dell’omertà – insomma delle mafie.
I poeti hanno risposto con entusiasmo e in neppure un mese l’antologia è stata completata. All’interno troviamo anche otto pagine a colori con foto tematiche: la serie della “Venere” (ossia la poesia o la bellezza) di Donato di Poce e alcune foto scattate in Calabria da G. Lucini.
L’antologia si presta anche all’educazione della legalità nelle scuole. É stato dedicata al sindaco di Pollica, Angelo Vassallo (ucciso proprio mentre la stavamo preparando) e a tutte le vittime di mafia.

Gianmario Lucini, Editore impostore, pp.16, € 3 (dicembre 2011 – saggio breve)
L’autore, che è anche poeta ed editore della casa CFR, cerca di documentare, con tono ironico e basandosi sulla sua esperienza di poeta e di editore, i comportamenti a volte paradossali di molti cosiddetti “esordienti”, alle prese con le onorose richieste di “contributi” per poter editare i loro libri.
Analizza anche, in tono giocoso e beffardo, le più frequenti “offerte” delle Case Editrici, con una gamma che parte da proposte assolutamente rapinatorie, sino a risposte più ragionevoli, anche se non “indolori”.
Una piccola tragicommedia della vita, in cui gioca il ruolo fondamentale il narciso dell’artista, che a volte è la causa prima del suo danno.

Roberto Maggiani, Poesia e scienza, una relazione necessaria?, pp.32, € 4,00
Che cosa riserva alle arti, e in particolare alla poesia, lo sviluppo scientifico e tecnologico? Quale relazione è possibile, e auspicabile, tra la poesia e la scienza? La poesia può avere un ruolo negli ambiti della scienza?
L’autore risponde a queste domande prendendo in esame alcuni frammenti poetici di autori classici e contemporanei, ipotizzando l’invalidità di una descrizione soltanto scientifica e “non poetica della realtà” e pertanto l’incompletezza del dato scientifico nella ricerca di senso. Viene inoltre avanzata l’ipotesi che poesia e scienza possono trovare una forma di sinergia che arricchisce ambedue questi ambiti culturali, a vantaggio ovviamente di un ampliamento di orizzonti e di possibilità.

Luca Benassi, Di me diranno, pp. 24, € 4,00
Nelle grandi iconografie tradizionali, riprese dai presepi natalizi, la scena è più o meno quella di un bambinello, quasi sempre sorridente, non certo un neonato ma già con una florida capigliatura e le braccine tese, l’espressione del viso a volte non proprio infantile e sorridente ma piuttosto ieratica, adorato da una madre in preghiera e da un uomo di età indefinita, inginocchiati e piegati su di lui; sullo sfondo un bue e un asino, come sta scritto nei Vangeli.

La scena è edificante ma immobile, astratta, irreale – o forse è la proiezione di una nostalgia collettiva per l’innocenza che viene perduta pian piano nel tempo. Nella vita non accade così e, soprattutto, in quella realtà, descritta dai Vangeli. Non esiste che la puerpera Maria se ne stia tutta beata e serafica dopo i dolori del parto: è una grande ingiustizia verso la sua corporeità, che è dolore – come dicono i testi sacri – lavoro, fatica, fughe, strazio…
La poesia, intensa, di Benassi, sconvolge questi schemi. L’elemento che sovverte quella scenografia tradizionale, con prepotenza, è infatti la fisicità, con la nota insistente del dolore fisico e psichico che, nell’iconografia tradizionale, è totalmente assente. Entra in gioco, in questa sorta di poesia della storia, anche una nota fortissima di de-mistificazione, di presa di distanza da una teologia tutta assorta nei significati trascendentali, dimenticandosi spesso che proprio il corpo è l’unico tramite col divino, tant’è che proprio nell’incarnazione si realizza il principio di ogni teologia (in senso cristiano) e proprio nel parto è il significato primo di ogni eucaristia, perché proprio Maria è la prima sacerdotessa che porta e consacra dentro di sé l’Eucaristia.
Entra in scena anche l’elemento della storia, non tanto come atti o fatti, ma come orizzonte o sce-nografia entro la quale viene collocato il poemetto. È la storia degli umili, dei semplici, degli ultimi, così che la natività di Cristo, da avvenimento teologico-sacrale, diventa paradigma di ogni natività povera e sconosciuta. G. Lucini

AA.VV. , La giusta collera, pp. 256, € 18
Abbiamo accettato che milioni di persone innocenti venissero trucidate nelle guerre assurde (quasi sempre causate dall’Occidente per accaparrarsi le materie prime o per altre motivazioni simili), abbiamo consentito ai nostri governi di appoggiare le più feroci dittature senza mai ribellarci, abbiamo sopportato che un padronato avido e insieme piagnone come quello italiano si impadronisse di fatto della politica economica, abbiamo sopportato che il nostro Paese si allineasse su ogni scelta di guerra ingiusta (come quelle dei Bush) col pretesto della “azione umanitaria”, abbiamo sopportato che molti nostri centri di potere contribuissero ad impoverire i paesi del Terzo Mondo, abbiamo taciuto ogni estate quando le mafie incendiavano i nostri boschi, non ci siamo mai scomposti per le politiche contro gli immigrati, non ci siamo stati mai quando era il caso di alzare la voce, alzare la mano, alzarsi incolleriti contro ogni ingiustizia. Abbiamo sempre chinato il capo, tacendo, inseguendo la nostra idea di scienza di cultura e di bellezza autogratificante e narcisistica, per “farci conoscere”, per “essere qualcuno”, col risultato che non siamo nessuno e chi si è “fatto conoscere”, nella stragrande maggioranza dei casi non vale un soldo come artista e come intellettuale. Siamo stati, insomma, i servi conniventi del potere. Tranne pochissimi – e ognuno giudichi se stesso – e di questi pochissimi crediamo che alcuni siano presenti in queste pagine.
Questa antologia vuole contribuire al risveglio delle coscienze, degli artisti e degli intellettuali in primis, ma anche in senso più lato, per l’utilità di chi la voglia sfogliare.
La raccomandiamo agli insegnanti, perché finalmente si sfati un mito che “la politica non deve entrare nelle scuole”, un mito sciagurato che ha contribuito all’involuzione delle coscienze, all’inconscia (o conscia) convinzione, di natura quasi mafiosa, che la politica “è cosa d’altri”.

Gianmario Lucini, Ballata avvelenata, pp.24, € 3

Poeti della grazia e dell’amore
prostrati da un dolore tutto vostro
come l’erba dei fossi, senza nerbo
vi lasciate alla corrente dei gregari
– così cari ai concorsi letterari -,
né il dolore del mondo vi rattrista
e ancor meno v’indigna o vi fuorvia
dal riscrivere poesia di poesia.

Giuseppe Panella, Il mantello dell’eretico pp. 32, € 4
Il mantello dell’eretico è un racconto di Bertolt Brecht (contenuto nella raccolta Storie da calendario) e dedicato a Giordano Bruno. L’eresia di Bruno, pur entrando in contrasto radicale con la consolidata visione del mondo della Chiesa, apriva, proprio per questa sua caratteristica di rottura con il passato, un nuovo mondo di ricerca e di riflessione riguardo il futuro dell’umanità. Senza eresia, probabilmente, non sarebbe possibile il progresso scientifico, la conoscenza filosofica, la capacità continua da parte dell’arte e della letteratura di innovare e di trasformare la lingua e la soggettività umana.
I casi del pensatore arabo di Spagna Averroè (Abū l-Walīd Muhammad ibn Ahmad Muhammad ibn Rushd), bollato e perseguitato come eretico per aver osato tradurre e poi applicare alla ricerca medica e filosofica i testi di Aristotele o quello di Julius Robert von Mayer, medico appassionato di fisica sperimentale e scopritore in maniera quasi casuale del secondo principio della sono emblematici del cammino di un pensiero che si voleva alternativo a quello codificato e ufficiale e che, per questo, è andato incontro a persecuzioni portate fino al limite della condanna all’oblio.

Salvatore Pintore, Thauma/Ispantu, pp. 96, € 10
Pintore tenta una ricostruzione storico-poetica del passaggio dell’umano, inteso come carattere antropologico, nel mondo. Lo fa come rievocazione mitico magica, che ricorda un po’ quella di Esiodo nella sua Teogonia, come un osservatore esterno che viene proiettato in questo magnifico scenario di crescita, di tappa in tappa dal mito al pensiero razionale, da un primo sentimento religioso al consolidarsi delle grandi tradizioni religiose. E lo fa anche cercando di usare il materiale umano e culturale della sua Sardegna, ricchissima di storia e più ancora di preistoria, trovando dei sentieri, dei percorsi che dall’oggi portano indietro nel tempo e dall’antichità risalgono, come lui cerca di fare consciamente, nell’inconscio collettivo sino all’oggi.
Il suo è dunque un poema sulla spiritualità dell’uomo, sulla sua intelligenza, le sue passioni, la sua “umanità”, la sua naturale vocazione alla convivenza. G. Lucini

Gianmario Lucini, Il disgusto, pp. 80, € 10
Il discorso poetico di Lucini, infatti, disprezza la nauseante banalità di molta contemporaneità che si scaglia, in forma di poesia civile – termini d’altronde che da questo poeta (di certo) non possiamo allontanare – , nella battaglia fra quel che resta di brandelli ideali e ideologici. Il suo discorso si ferma al disincanto, ossia alla decostruzione dell’incantamento sul quale poggia l’assurdità di un mondo diviso fra ricchi e poveri e le sovrastrutture che ne codificano gli statuti. Un disincanto che vuole farsi odioso, in una sorta di presa di distanza o di dissociazione (“Poesie per farmi odiare”) laddove denuncia la connivenza dei poveri del mondo ricco, dietro compenso delle briciole del benessere, con i grandi poteri economici che sfruttano i veri poveri, quelli dei Paesi cosiddetti “emergenti” (in Alla deriva, Pasoliniana, Impoetica (2), ma soprattutto Canzone della nemesi e Epigramma per Pierpaolo Pasolini). Nunzio Festa

AA.VV, Nun si cuntunu i ciri nta l’artari (non si contano i ceri sull’altare), pp. 96, € 10
L’Associazione don Milani, che opera nella Locride, ha quindi trovato il giusto riferimento culturale per combattere la mafia, nel pensiero di don Milani. La mafia è un problema di cultura, ed è per questo che è un fenomeno così difficile da combattere: la cultura infatti ha tempi lunghi per il cambiamento, persiste nel tempo, sopravvive a mutamenti più superficiali e repentini che investono la politica, l’economia, lo stile di vita. La cultura ha respiri millenari, a volte; pertanto, assumere come punto di riferimento per la propria attività proprio un personaggio come don Lorenzo, significa anche un segno di determinazione, di volontà di rapidi cambiamenti (così come chiedeva don Lorenzo) nel segno della decisione (de-cidere significa infatti “tagliare”).
Gli scritti che qui presentiamo rappresentano il contributo di alcuni autori al risveglio dell’interesse per la figura di don Lorenzo e del suo insegnamento. Questa antologia verrà pertanto usata come strumento culturale, per parlare certo di poesia e di don Milani, ma soprattutto per parlare di un nuovo modo di vedere la vita e la cultura, un metodo per leggere ciò che capita nel mondo, con il disincanto dell’intellettuale che si pone dentro un contesto come coscienza critica e fermento rivoluzionario a partire da se stessi. G. Lucini

AA.VV., Oltre le nazioni, pp. 80, € 10
E io credo che l’arte e la politica, sin quando non avverrà che la politica accetterà di condividere questo orizzonte etico, non potranno mai comprendersi – e lo dimostra in primis proprio la politica italiana, che è forse la più miope e la più insensibile all’arte nei Paesi Occidentali., incurante del suo retaggio storico (il 60% del patrimonio artistico mondiale!) e del suo immenso retaggio culturale, nel quale proprio la poesia ha giocato un ruolo storicamente importantissimo e di primissimo piano.
Se le cose stanno così, questa modesta pubblicazione vuole anche essere una provocazione, un monito alla politica (specie quella più becera e arroccata su una cultura di parata e di rimembranza, non di rado ancora ferma alle poche e malferme nozioni apprese svogliatamente sui banchi di scuola), una precisa presa di parte. Questo significa dunque, per gli artisti, quel “restiamo umani” di cui Arrigoni aveva fatto il suo motto, che è anche un “restare veri, giusti, intellettualmente onesti”. G. Lucini

Giacomo Vit, Zyklon B, pp. 48, € 7
Lo sguardo delle cose cerca solo la memoria, un’evidenza della memoria, più che un giudizio o un’accusa. Il poeta è talmente smarrito davanti alla devastazione fisica, morale e spirituale dell’essere che ha solo parole per trascrivere l’evidenza, per interrogare le cose, per trovare il loro sguardo col quale guardare il mondo e la storia. Lo sguardo coglie allora la terribile verità: l’uomo diventa fiamma nell’acqua, ombra nella notte, / sputo di cenere… Lo può diventare sempre, non ci sono vaccini alla disumanizzazione, non ci sono mai pericoli per sempre superati, nella storia. Ci sono gli oggetti però – e la memoria che sopravvive in essi – che sono i veri monumenti alle esistenze perdute di Auschwitz.
C’è la commozione, a redimere la follia della ragione ideologica, capace di chiedere alle cose l’umanità che esse trattengono nella loro storia, in quel misterioso permanere dopo i loro creatori, che suona come uno scacco matto alle eterne domande di senso; c’è quella ragione del cuore che la ragione non conosce, per dirla con Pascal, che permea questa intensa silloge di una muta domanda che va oltre la storia narrata dagli oggetti. Il vero antidoto al male è, dunque, guardarlo bene in volto, interrogarlo/interrogandoci, conservarne la memoria. G. Lucini

Giancarlo Serafino, Poesie sociali e civili, pp. 72, € 10
Il lettore cerchi invece un carattere forte, la pressante proposta di tematiche scomode, l’interrogativo irrequieto e problematico. Vi cerchi non i paesaggi incantati ma i paesaggi della realtà che accompagnano la nostra esistenza, anche quando volgiamo lo sguardo altrove e non vogliamo o possiamo vederla, questa realtà. Cerchi l’argomento scomodo pescato pari pari dalla cronaca e trasfigurato dalla domanda di senso, dal bulino della lingua che intacca e corrode, cerchi la denuncia, l’insight, la consapevolezza che la ricerca di felicità ha reso la società civile dura e insensibile, impoetica, disumana. Cerchi il tentativo della poesia di rendersi coscienza, voce collettiva, tramite fra l’umano e l’oltre-umano, nella ricerca di una identità perduta fra le chiacchiere della cultura di cultura, della poesia di poesia, senza più aderenza alcuna con la sofferenza dell’Essere e il suo abbandono a se stesso. Gianmario Lucini

Letizia Lanza, Tracce, pp.48, € 7,00
La ricerca della nostra autrice sia in poesia che nei suoi lavori di saggistica, è un continuo soppesare la parola, decifrarne i passaggi nel tempo, ripulirla da ogni incrostazione perché l’alone del significato, trasformato e a volte deformato dalla sua avventura nel tempo, ritorni a splendere di una luce peculiare. Da qui il riferirsi al latino per alludere all’italiano, l’andare alla sorgente per misurare la distanza dalla foce e quindi poter misurare questa forza di flutto, questo cammino della parola nel tempo, che è lo stesso cammino dell’uomo nel tempo. Gianmario Lucini

Francesco Aprile, New Page, pp. 16, € 3
L’autore descrive in queste pagine i capisaldi del movimento “New Page”, nato da un’idea dello scrittore salentino Francesco Saverio Dòdaro, condivisa da più di una trentina di autori, per la maggior parte residenti in Italia ma alcuni in 7 altri diversi Paesi, e fra i quali si colloca lo stesso Aprile, anch’egli salentino.
Il movimento “New Page” si propone di trovare modalità espressive diverse, in grado di competere con la velocità della comunicazione del mondo contemporaneo, proponendosi nei luoghi della vita, dove la gente passa le sue giornate. Il messaggio dell’artista cerca così nel flusso dell’esistenza i suoi interlocutori, e per raggiungerli meglio si propone come momento di comunicazione concentrata e brevissima: 100 parole per un romanzo, ad esempio, che si può leggere in pochi minuti.

Matteo Bonsante, Lapislazzuli, pp. 128, € 12,00
C’è una presa di coscienza, che va oltre una speranza e raccoglie con rinnovata passione di vita tanti resti (per altro ancora vitali promettenti semenze) delle filosofie, delle scienze e soprattutto della poesia, delle arti, della musica di un Novecento, talvolta insapientemente denigrato ‑ eppure tanto rivoluzionario in difesa dei valori di una parola non strumentale, né impositiva. In questa breve (e tanto più lunga e propositiva composizione) rispondono gli echi di una cosmologia in cui gli astri e le astrazioni, la fisica e le matematiche disvelano l’energia dell’origine e di una autosufficiente (senza… sostegni) capacità di attraversamento. Con libertà di movimento (senza indicazioni) entro gli spazi vuoti che l’esistenza offre alla creatività inarrestata dell’uomo. Del suo pensiero e dei suoi sensi. Il presente (l’Ora) come apertura alla pacificazione totalizzante, vanto della mente produttrice e acquisitrice. La circolarità che si avvale delle proposte delle nuove scienze: un relativismo non negativo, bensì in positivo in quanto motore di libertà. Quotidiana e cosmica. L’arrivo al profondo in un rovesciamento n-dimensionale della psicoanalisi: quindi il profondo (Nulla) come conquista e non mai come disperazione. Come luogo del sogno e del segno primigenio, delle loro ambiguità cromatiche: se vuoi cogliere la pietra leggera cerca l’azzurro. Vita statica come pietra nella sua leggerezza lucente. percorsa dagli atomici microcosmi interiori. Il grande ossimoro della poesia in cui vale, senza fine, la sommossa staticità dell’essere. Giò Ferri

Ennio Abate, Immigratorio, pp. 88, € 10
Per un’operazione intellettuale così complessa e multiforme, evidentemente, non sarebbe bastata oggi la lingua della lirica tradizionalmente intesa, cioè monologica. Era necessaria l’assunzione larga delle prerogative di genere quale si sono ridefinite nel corso del Novecento, dalle avanguardie vociane allo sperimentalismo officinesco alla polverizzazione postmoderna. Di qui il ricorso a più codici, con l’accostamento di versi e di prosa e di lingua e dialetto: scelta non banale e retta da istanze non univoche. Il dialetto è la voce del passato perduto, il dono di Salerno, la parola della regressione, il senso affidabile e falso; così come la lingua è una conquista dolorosa ma vera, strumento di estraneità e di sradicamento e tuttavia bottino irrinunciabile della coscienza e della conoscenza. Come domina nella parte iniziale, il dialetto è perciò destinato a sparire progressivamente nella seconda, dopo essersi confrontato con la lingua nuova, universale e inautentica, che l’emigrante schiera nel confronto con Karl Bis, contrapponendosi al suo dialetto – autentico ma regressivo. Non c’è salvezza: la verità che il dialetto può ancora attingere alla memoria e al destino individuale è una verità dimezzata e ingannevole; sta alla realtà come la Salerno-presepe sta al mondo del neocapitalismo. E d’altra parte alla lingua resta interdetto l’accesso all’archeologia del soggetto, del quale non può salvare l’identità irripetibile, né esprimere la nostalgia e il rimpianto. Non possono che morire in dialetto padre e madre; né altro che il dialetto possono resuscitare i ricordi di guerra, la campagna, il seminario dell’infanzia. Ma nessuna lingua porta il dono della redenzione: non al passato della memoria, né al presente della verità conosciuta. Sta piuttosto al confronto, alla giustapposizione di codici di garantire, in luogo di una redenzione comunque negata, la conoscenza. Ed è questa l’unica promessa che il libro può sensatamente fare al lettore, chiedendo in cambio, come si è visto, l’impegno a fare altrettanto, a conoscere oggi i nuovi soggetti. In questo compito si incontrano gli sguardi che balenano dal passato, e che la poesia ha ridestato, e le promesse ancora possibili dal minaccioso futuro. E anche la poesia, sospesa fra regressione alla lingua pura della memoria e dura prosa del mondo, può dare il suo contributo; o forse pronunciare la sua richiesta. Pietro Cataldi

Ivan Fedeli, A bassa voce, pp. 56, € 10.00
La poesia non si occupa quasi più del senso della morte e del senso della vita. Forse per questo motivo questo libro incuriosisce, solleva un sentimento di piacevole stupore man mano ci si addentra in una lettura attenta della traccia poetica, e infine ci lascia in un’atmosfera lirica pensosa dalla quale sembra emergere un sentimento di provvisorietà e di leggera inquietudine, come chi ha la sensazione di aver smarrito qualcosa di importante. Forse questo “qualcosa” ha a che fare col senso della vita e della morte, con la percezione di essere stati scaraventati troppo lontani da un luogo originario, dalla forza centrifuga degli eventi e che, in qualche modo, occorre fermarsi e riannodare un filo spezzato. Occorre ritrovare la capacità di meravigliarsi, ma non dei barocchismi e delle costruzioni complesse dell’ingegno, ma piuttosto delle cose semplici (ma insieme di profondità insondabile) che sono il fondamento primo della nostra stessa essenza e il punto di arrivo della nostra realizzazione, il conto primo e ultimo da saldare a noi stessi e agli altri. […]
L’intenso e raccolto lirismo di queste liriche sorprende il lettore per la capacità di comunicare un sentimento vero e raccolto, lontano da ogni chiasso e da ogni urlo, intento nella profondità di un mistero che le parole non potranno mai esprimere. Il poeta si lascia andare alla sorgività e alla ispirata leggerezza del suo canto in un tono che solo all’apparenza sembra monodico ma che in realtà è percorso da sotterranee vibrazioni, fremiti, capacità di stupirsi e appassionarsi per il mistero e l’innocenza, che si riverberano in un linguaggio colloquiale ma sorretto da una arditissima costruzione metrica, che pur non apparendo rappresenta l’ossatura melodica di questa delicatissima scrittura, conseguendo effetti di profonda umanità e interiorità. G. Lucini

Vanio Garbujo, Occhistanchi, pp. 88, € 12.00
Occhi che sanno orientare lo sguardo dove non sembrava destinato, verso l’interno dell’uomo. Laddove anche vi è una Presenza da cogliere e da narrare. Laddove una perla si è formata e attende di essere scoperta. L’ha plasmata anche la sofferenza, come quella nella conchiglia, che sappiamo essere un grumo di resistenza all’aggressione, quasi una cicatrice. E quella perla dall’interno riflette la medesima luce che è anche al di fuori, facendola però brillare con un’intensità nuova, lasciando così presagire che nulla più è fatalità, ma tutto è parola detta per me: “Gocce di sole scendevano – sulla terra – e mi cercavano”.
Occhi, infine, che sanno ricordare ciò cha hanno visto, per continuare ad affidarlo alle parole, e queste possano narrare. Stanchi dunque anche perché gravati dalla responsabilità del ricordare e dell’attestare. Ancora appesantiti, ma non dalla paura dell’inizio, non dall’ombra della caduta. Sono ormai occhi gravati dal ricordo e appannati dall’emozione di ogni parola che tenta di dire il vissuto. Lo spessore della vita li ha purificati anche tramite il buio, e ora tentano di raccontare. E narrando, invocano il compimento: “Ce ne andiamo via così / con la vita sotto i piedi mentre / dagli occhi immagini scorrono veloci / in un cuore che del sole / invoca la presenza”. († Sabino Chialà, Comunità di Bose)

Sabino Chialà è monaco della Comunità di Bose, studioso di ebraico e siriaco. Ha scritto diversi libri su tematiche religiose e poetiche, dai detti del padre del deserto ai detti islamici di Gesù. (Il libro delle parole di Enoc; Discese agli inferi; Dall’ascesi eremitica alla misericordia infinita; Ricerche su Isacco di Ninive e la sua fortuna; Parole in cammino, Testi e appunti sulle dimensioni del viaggiare; La vita spirituale nei Padri del Deserto; Abramo di Kashkar e la sua comunità; Silenzi. Ombre e luci del tacere)

Lucia Cicchino Visconti, Diladdarno (racconto), pp. 64, € 8.00
Scrivere un racconto su San Frediano costringe lo scrittore a fare i conti con il vernacolo fiorentino dato che questo quartiere è il più vernacolare ed etnico di Firenze. E la Visconti non si sottrae a quest’ obbligo e inventa un linguaggio saporito e fresco, infarcito di fiorentinismi ma in modo soft, non invasivo, senza compiacimenti linguaioli. Di parlata vernacolare ce n’è dunque quel tanto che basta a dare l’atmosfera, l’odore di San Frediano, la grazia maliziosa di tipi e figure che non possono parlare in un italiano standard, altrimenti perderebbero di spontaneità e di vita.

Gianmario Lucini, A futura memoria, pp. 64, € 10.00
Il titolo stesso della raccolta, A futura memoria, vuole rappresentare una testimonianza ideale, ma ugualmente molto concreta, del sentimento e dei sentimenti del nostro tempo, (se mi si consente il richiamo all’ungarettiano Sentimento del tempo), capace di rappresentare anche i sentimenti di ogni tempo, intendendo così mostrare che la natura dell’uomo, attraverso i millenni, in fondo, non è poi cambiata affatto, soprattutto quando si parla di coscienza, di sensibilità nei confronti del dramma e dei drammi delle guerre, anche lontane in senso fisico, e della sfera emotiva che ruota intorno a esse. […]
L’intento di Lucini, infatti, è quello di richiamare il nostro mondo, soprattutto quello occidentale, a una maggiore consapevolezza di sé e di ciò che lo circonda, perché le regole morali della nostra società cosiddetta “civile”, proprio quando avrebbero bisogno di vedere un’apertura dell’uno verso l’altro nel nome di una nuova solidarietà, appaiono invece viziate da una indifferenza, da un egoismo e da un’ipocrisia di fondo che sembrano appartenere a noi tutti. […] … emerge anche un sentimento di cruda e quasi ironica pietà che è come fosse vissuto in prima persona dall’autore stesso, mentre l’”io” di chi scrive e quello di chi vive direttamente quelle situazioni di guerra è come diventassero una cosa sola, portando per questo, in ultima istanza, il poeta a immedesimarsi con la realtà umana dei militari, con la loro precarietà esistenziale, la loro vita in pericolo e con la loro apparente indifferenza che, in certi casi, essi stessi sono chiamati ad avere nei confronti dello spettacolo tragico della morte dei propri compagni o di quello della morte della gente innocente, sotto il fuoco amico o nemico, in un misto di rabbia e di disperazione, in un misto di dovere da assolvere e consapevolezza di essere dalla parte degli sfruttatori, di contraddizione tra la necessità di un intervento armato voluto dai potenti e di ideali da difendere, tra la brutalità di tutte le guerre e quella della guerra in corso
Marco Ratto

Claudio Roncarati, La fata fatua e lo psichiatra, Co-edizione Alpes-CFR, 2011, pp. 96, € 12
I titoli delle poesie rimandano in modo evidente alle intenzioni ludiche del poeta, il cui libro, giocato su un tono di stravagante leggerezza, sembra volerci diversamente interrogare sottoponendoci a una scommessa: si possono dire verità sgradevoli o addirittura dolorose attraverso un linguaggio che si sottrae alla pensosa serietà dei “poeti laureati”.? Si può usare la leggerezza di accento per disinnescare i campi minati della poesia “seria”? E con quale risultato? La scommessa, in questo senso, sembra vinta.
L’incipit delle due prime poesie definisce in modo scanzonato e divertente le figure dello psichiatra e del folle, togliendo ogni aura sacrale sia all’una che all’altra. Stessa sorte tocca però al poeta, che ne parla. Anche lui non può fare a meno di sottomettersi alla stessa perte d’auréole di baudelairiana memoria.

AA.VV., Retrobottega – I poeti di Poiein 2010 – 10 sillogi di 10 poeti, pp. 152, € 15,00
Claudia Ambrosini è una sinologa e cerca, nelle sue poesie, di mettere insieme l’autentica e se vogliamo antica anima lirica lombarda, con le suggestioni dell’antica cultura cinese. Barbaro è uno studente universitario molto schivo e riservato, che esordisce in questa antologia con versi semplici e profondi. Nunzia Binetti, leccese, affronta tematiche della sensibilità femminile e del rapporto con il maschile (nel modo di vedere e sentire anche il mondo e la storia). Vanjo Garbujo è un sacerdote e abita a Musile del Piave (VE); la sua intensa meditazione religiosa sembra prendere spunto e voler seguire lo spirito dialogico della poesia turoldiana. Nunzio Festa con i suoi ritmi anarcoidi in realtà cerca quell’anima popolare del Sud di straordinaria sapienza e di scarsa permeabilità alle chiacchiere del progresso. Lisciani Petrini è invece un poeta attento a ritmi e sonorità inedite, attento alla cultura letteraria classica, alla ricerca linguistica. Alberto Mondi si interroga sul rapporto fra la nostra cultura e quelle orientali, che egli frequenta nei suoi viaggi di lavoro, con l’occhio dell’osservatore attento e un sentimento elegiaco ma anche disincantato. Virginia Murru recupera una poetica della libertà in senso forte, anche come donna, e pur nella mitezza e nella riservatezza del suo carattere esprime con passione l’avversione alle sovrastrutture del nostro stile di vita al registro falso e spersonalizzante dei rapporti umani. Fabio Rocci invece è un poeta attento all’ordine dei simboli e sente con molta forza il problema della verità nella poesia. Infine Anna Ruotolo, con la sua lirica solare, in questa silloge esprime l’idea di positività e di fiducia, senza però mai distaccarsi dalla realtà, dall’identità, dalla terra.
Voci quindi molto diverse, per stile, per tematiche. Vi sono autori che hanno alle spalle una o più pubblicazioni, a cominciare da Festa (che ne ha parecchie, poco conosciuto forse perché questa è la sorte di molti poeti “decentrati” dai grandi centri culturali), e a seguire Lisciani Petrini, Garbujo, la stessa Ruotolo (benché giovanissima). Altri hanno forse pubblicato qualche lirica su riviste, o nulla del tutto. G. Lucini

Ivana Tanzi, Fino all’ultimo comma, pp. 48, € 8,00
Io non ho mai conosciuto Bordignon e ho a volte ascoltato alla radio le sue interpretazioni e letture del nostro patrimonio di musica per coro, che è sterminato e semi sconosciuto. Dalla lettura di queste poesie egli mi appare come una figura di grandissima umanità, capace di chiedere il massimo con polso e severità ma anche capace di dare il meglio di sé, in una sorta di scambio comunicativo con i coristi basato sulla relazione profon-da che si tramuta in intesa diventando canto. E rimane quindi , il maestro, come scolpito in questi versi leggerissimi e seriosi, ben strutturati e nello stesso tempo dall’apparenza così libera, proprio come la musica di Mozart. G. Lucini

Nader Ghazvinizadeh, Metropoli, pp. 48, € 8,00
Per capire l’opera bisogna immaginare spiando attraverso l’obiettivo della videocamera dell’autore attraverso la quale si rivelano l’angoscia che può affliggere chi vive nella «città sempre notte» e la ricomposizione di un presente collettivo attraverso un tono generale della silloge accorato, sincero, pronto nel consegnare con fedeltà alla pagina ciò che è evidentemente vissuto quotidianamente dagli abitanti della Metropoli.
Nella «città / voliera città / granaio» si disgrega nell’aria, o meglio nella nebbia, tutto ciò che un tempo vi era di stabile, è dissacrata ogni cosa sacra, gli uomini sono forzati a guardare con occhio disincantato la propria situazione ed i propri reciproci rapporti. Nei ritmi rapidi del mutamento, nell’intensità delle percezioni con cui i suoi abitanti ne vivono e ne accompagnano le trasformazioni, la Metropoli sfascia i legami strutturali della comunità borghese, corrode i postulati tradizionali ed infrange le regole di condotta tradizionali. Nader Ghazvinizadeh ha il merito di dare vita a questi suoni, a queste immagini, a questi colori antichi e moderni della città in veloce cambiamento che troppo spesso dimentica i valori profondi della sua tradizionale umanità, presa dal ritmo frenetico che non lascia spazio ai sentimenti veri.
L’opera, corale molto più che autobiografica, dà voce al popolo ed alla sua lingua, quindi a parlare non è mai una persona sola, tanto meno l’autore, ma la nuova specie a cui l’uomo metropolitano appartiene e la gamma delle reazioni individuali è tanto più variegata e discordante quanto maggiore è il coinvolgimento di ciascuno nella civiltà dell’urbanesimo: chi partecipa alle sue ebbrezze con slancio euforico, chi fronteggia l’urto del nuovo con perplessità, chi, infine, patisce la frenesia del fare con ansia nevrotica o addirittura con angoscia involutiva. Per questo motivo la silloge non ha un finale poiché è circolare il passaggio da un uomo all’altro e tale andirivieni ha al suo interno molte reiterazioni. La monotonia, così come la ripetizione ipnotica di molti termini di uso comune ed il suo linguaggio capace di trasfigurare una parola semplice e colloquiale in un suono magico e quasi onirico, ottengono l’effetto di cogliere la poesia dalla strada e dal groviglio di paesaggi snaturati, metterla sulla carta in una narrazione struggente e di forte impatto emotivo. Sergio Covelli

Carlo Carlotto, Poesie del panesalame, pp. 48 € 8,00
Già dal titolo trapela la cifra stilistica dell’autore, quel tono dimesso che ne contraddistingue tutta l’opera in versi. Una poesia – la sua – che rifiuta l’aulico, il retorico, il ridondante, l’ampolloso per un periodare semplice basato sulla concretezza dei termini. Una lingua calata nel quotidiano con inserti vari sia dall’inglese, sia da sapienti spunti dialettali, come il subric di «Schizzi di favole» di gusto gastronomico o il Garibuia di stampo favolistico della medesima poesia.
Un titolo di tono basso, da scampagnata tra amici, all’ombra variegata di un albero o sotto la penombra di un pergolato, quasi che i versi debbano fluire impastati di vita e di realtà.

Lucia Cicchino Visconti, Humus, pp. 32 € 5,00
Piante, fiori, animali, che in questa nuova raccolta poetica di Lucia Visconti trovano spazio tra i suoi versi, sono tutti intrisi dell’umanità alta e dolente dell’autrice, della percezione del divino attraverso la natura. Davanti al Mistero che le si rivela, l’urgenza di esprimersi diventa in lei talmente forte da non poter restare confinata nel silenzio. La sua voce, nel dichiararsi, si fa parola poetica e canto. Un canto variamente modulato, spesso venato dallo struggimento di non potere essere pienamente esprimibile con i poveri mezzi a nostra disposizione “Di troppo le parole” (Giubilo), ma costantemente teso alla luce dell’Antico dei giorni, unica fonte di Sapienza, unica via di Salvezza. Annalisa Macchia

Alfredo Panetta, Na folia nt’è falacchi (Un nido nel fango), pp. 72 € 10,00
Nei dieci passi che concludono, l’io quasi si smarrisce, si disperde, andando a ritrovare altrove la stessa urgenza cinestesica di messa al mondo e di travaglio. Che questa volta non si differenzia, ma si riconosce in luogo e tempo altro. In questo senso, poesia civile, dalle mani sporche, finanche un po’ sartriana, poesia del dire senza velo, ma con il velo saturando il sangue e curandosi del pianto.
Una raccolta che si impegna e che ci impegna, non da ultimo per lo stupore della rappresentazione di un meridione che respira piano, a volte a stento, ma respira sempre. Ci impegna ad esser consapevoli del danno della Storia all’Uomo, e della storia alla persona, qui così duramente dichiarati. Per un immaginario d’amore originale, non indulgente e custodito. E infine, poesia di un femminile maltrattato e acuto, un femminile che trapassa con il grido, il grido nella donna così simile alla ferita nella pancia del maiale.

Arnold de Vos, O Terra dammi ali, Ed. CFR, 2011, pp. 96, € 12,00
Nessun discorso accademico, nessuna premessa di tendenza o conclusioni di mercato. C’è una verità immediata ed irrinunciabile da dire: la poesia di Arnold de Vos ha una singolare capacità di farsi carne. Carne nel talento della sintesi che si amalgama all’altro talento, oggi più difficile da trovare, quello dell’ispirazione forte, incessante, urgente, imprescindibile, come se la poesia levasse dall’anima e dal corpo di chi scrive la coriacea essenza di un tempo molto lontano, una sorta di costola di Adamo.
Ma c’è ancora un ulteriore talento da considerare in Arnold, quello di andare al sodo senza alcuna sorta di infingimenti. Tutt’al più “brandendo” le parole e offrendo di esse un significato “plurimo”. Plurimo sta per adatto a chi ha scritto ed a chi legge, adatto anche alle connessioni più profonde dell’essere in amore che possono, più o meno, riguardare noi stessi.
Quando nel suo racconto poetico de Vos usa la metafora, fa intendere che non è un gioco di maschere, ma il caleidoscopio del significante, tanto da consentire all’esplicito, talvolta inequivocabile e dirompente, una consonanza personale espressa senza timore.
È anche questo coraggio che piace al lettore il quale può “simbolicamente” gettare un ponte fra se stesso (colui che legge) e l’io narrante (colui che scrive) per provare sensazioni del tutto alternative, fino ad allargare a macchia d’olio l’idea (quasi sempre consentita in poesia) di una società più evoluta nella tolleranza, a differenza di quella oggi discriminante. E dallo scherzo, o dal gioco, oppure dall’intenzione più seria dell’autore, ne esce una nuova prospettiva personale, sentimentale, carismatica e sociale, perfino nei momenti in cui le considerazioni sul proprio essere si fanno velate ed amare. Ma c’è sempre, alla fine, un sottile, talvolta appena percepito filo d’ironia che, come in una ludica magia di speranza, mette a posto la gran parte delle equazioni sospese. Ludovica Cantarutti

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